E dopo il coronavirus? Confessioni di un cattolico alquanto distratto
Continuo a pensare che questo tempo che stiamo vivendo, affetto da pandemia cronica, sia un’occasione unica per ripensare in modo nuovo al contributo che il cattolicesimo può dare a questo Paese, in termini di proposta etica di cittadinanza solidale fondata sul bene comune.
Il web è preso d’assalto da post, commenti, provocazioni. Le chat ad alto tasso di “cattolicità” pullulano di pareri, idee, proposte di riforma, soprattutto all’interno della Chiesa cattolica. Così mi ritrovo spesso a dare un’occhiata, anche per deformazione professionale, a quello che bolle in pentola nella galassia cattolica, almeno quella più “impegnata”. E più che una pentola mi sembra che sia un enorme calderone dove viene fuori di tutto, odori, spezie, ma anche tanto fumo e poco arrosto.
Confesso che ho un debole per le “cose interne di Chiesa”, e quindi prendo atto che questa è una stagione dove finalmente il laicato, ma anche i sacerdoti, hanno ripreso diritto di parola: dalla riforma liturgica agli spazi del sacro, dalle messe sì alle messe no e alle sue implicanze con la vita civile, dai commenti ai comunicati ufficiale della Chiesa alle parole del papa, dalle omelie di Santa Marta a ogni spiffero proveniente da Oltretevere. Ci sta. E forse è un bene che sia così.
Annoto solo che quello che stiamo vivendo è un tempo ecclesialmente felice, in quanto la felicità deriva dall’essere liberi di poter esprimere in pubblico i propri pensieri su Chiesa e dintorni. C’è papa Francesco. Non abbiamo l’assillo del Santo Uffizio. Nessuno rischia più come una volta di essere cacciato da Università, giornali, scuole, insegnamenti, perché la pensa diverso dalla gerarchia. Nell’epoca post-camilliana godiamo di una libertà e coraggio che in altri periodi storici non abbiamo goduto.
Certo, questo parlare di “cose di Chiesa” oggi ha un valore forse meritorio e interessante per chi è, appunto, un cattolico impegnato (per usare una frase fatta), ma non riguarda minimamente la stragrande maggioranza degli italiani, che vedono e sentono le cose di Chiesa in modo diverso. Lontano, come fosse un ricordo sbiadito nel tempo.
I cattolici sono una minoranza. Oggi ancora di più nel Paese. E sono pure una minoranza della minoranza tra di loro, con tutti quei movimenti e realtà di base che sono sì il frutto del Concilio Vaticano II, ma che di fatto hanno diviso, segmentato, e alla fine diminuito, quella forza d’urto e di visibilità politica e sociale che ha sempre avuto il cattolicesimo italiano. Una miriade di piccole parrocchie, con proprie sensibilità e carismi, all’interno della galassia più grande, la Chiesa. E una Chiesa gerarchica spesso in ostaggio di queste realtà ecclesiali, vista spesso come utile orpello per conservare privilegi pastorali e spirituali.
Ho l’impressione che insistere su modello un po’ anarchico di riformismo dal basso, come si vorrebbe (ma i più intelligenti sanno come il vero riformismo nasce pure dal basso, ma ha bisogno dell’appoggio esplicito di chi sta in alto) sia bellissimo dal punto di vista della soddisfazione personale – la preghiera, il sacro, la liturgia, il rito, i sacramenti, il ruolo dei laici e delle donne –, ma sicuramente poco urgente e premiante per il futuro di questo Paese.
Perché il punto è proprio questo. I cattolici, e la Chiesa nel suo ruolo gerarchico e istituzionale, cosa hanno da dire riguardo al futuro politico dell’Italia?
Meglio criticati o ininfluenti? Le mani impastate di imprenditoria, di società civile, di politica, o solo le mani interessate a come prendere l’Eucaristia in tempo di coronavirus, se come e quando? Insomma, per essere più chiari, il Paese o la parrocchia, peraltro ancorata per struttura e forma al Concilio di Trento? Il bene comune, o il godimento personale di una bella omelia, di una bella messa con la comunità di appartenenza?
Ecco. A me sembra che questo sia il punto fondamentale. Riconosco che una stagione di riforme sta aprendosi dal basso delle feritoie della società e dai retrobottega delle sagrestie dove ancora tanti cattolici si sentono più al sicuro e confortati da consuetudini appaganti. Una stagione, che, dopo tanti anni di silenzio laicale e teologale, è giusto che ci sia, che prenda vita, che guardi lontano.
Ma il rischio è quello di ritrovarsi a parlare, ancora una volta, solo di parrocchia, di pastorale e ruolo dei laici, di argomenti triti e ritriti che saranno sommersi presto dalla voracità della storia, che non fa sconti a nessuno.
Se una riforma che il mondo cattolico dovrà fare, e pure in fretta, la trovo qui. In questa voglia di uscire dalle sagrestie per annunciare un Vangelo che ha il dovere e il diritto di essere dove dovrebbe essere, in mezzo all’umanità. Il resto, carissimi amici, arriverà.
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