Se oggi noi giornalisti fossimo un po' di più "giuntelliani"
Per tanti anni amici e colleghi mi hanno spesso apostrofato con la frase: “sei giuntelliano”. Credo che ciò si riferisse non tanto al fatto che ho avuto, fin da adolescente, io ragazzo di periferia e non “figlio di papà”, la fortuna di essere stato allevato, grazie proprio a Paolo Giuntella, nella culla del cattolicesimo democratico, o che mi appassionasse la musica, le buone letture, il sigaro toscano e le osterie romane (le passioni di Paolo...). No, non è questo. Credo invece che l’appellativo “giuntelliano” si riferisse al modo in cui, fin da giovanissimo, mi sono approcciato alla scrittura e al mestiere di giornalista. Non nego che da ragazzo mi divoravo letteralmente ogni articolo di Paolo, ogni suo libro. Per me era una specie di droga. Quella scrittura intrisa di biografie impossibili, di punteggiatura al limite del genio e della sregolatezza, quel giornalismo che nella ricerca della verità osava sempre l’accostamento con l’Altrove, attraverso i sapori del cielo e della