Se oggi noi giornalisti fossimo un po' di più "giuntelliani"

Per tanti anni amici e colleghi mi hanno spesso apostrofato con la frase: “sei giuntelliano”. Credo che ciò si riferisse non tanto al fatto che ho avuto, fin da adolescente, io ragazzo di periferia e non “figlio di papà”, la fortuna di essere stato allevato, grazie proprio a Paolo Giuntella, nella culla del cattolicesimo democratico, o che mi appassionasse la musica, le buone letture, il sigaro toscano e le osterie romane (le passioni di Paolo...). No, non è questo. Credo invece che l’appellativo “giuntelliano” si riferisse al modo in cui, fin da giovanissimo, mi sono approcciato alla scrittura e al mestiere di giornalista.

Non nego che da ragazzo mi divoravo letteralmente ogni articolo di Paolo, ogni suo libro. Per me era una specie di droga. Quella scrittura intrisa di biografie impossibili, di punteggiatura al limite del genio e della sregolatezza, quel giornalismo che nella ricerca della verità osava sempre l’accostamento con l’Altrove, attraverso i sapori del cielo e della terra, la fine ironia, la scanzonata visibilità di una cultura profonda e radicata… ecco, tutto ciò ha fatto maturare in me la scelta di essere un giornalista. Leggendo Paolo, mi emozionavo.

Capisco che il mestiere di giornalista oggi non goda molta fortuna. Eppure, io sono felice di esserlo, malgrado una crisi di sistema che sta sconvolgendo regole ed etica, portafoglio e garanzie.

Sabato 19 maggio, durante l’incontro pubblico per ricordare i dieci anni dalla morte del mio “maestro” Paolo Giuntella, un amico che non vedevo da trenta anni ma che facebook ha reso meno distante, mi ha detto: «tu sei il vero allievo di Giuntella».
«Ah, questo non lo so proprio», ho risposto. La maturità degli anni ha levigato la scrittura, all’addizione verbale di “giuntelliana” memoria preferisco ora la sottrazione della parola, sapendo bene che siamo orfani di memoria collettiva e biografica (dove invece Paolo eccelleva).
Però sono convinto che la lezione di Paolo riguardo un giornalismo dove l’italiano, grammatica e sintassi, non sia solo un riempitivo per abbellire una foto scattata da un iphone, ma diventi, ancora oggi, una risorsa etica sostenibile per raccontare la vita dei nostri mondi e del mondo – che è poi la missione del giornalista –, andrebbe ripresa. 

Una scrittura leggera accompagnata dalla ricerca della verità e dalla misteriosa scoperta, perfino laicamente accettata, di un Altrove e di un Dio che ci guarda sornione da lontano.

Se il giornalismo di oggi, così perso tra i talk show e i twitter, almeno spero, in parte si salverà, è perché avrà saputo cogliere tutto il buono di questa parola che corrode e apre vie, non sempre battute, di speranza e di verità. 

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