Appunti per una Pasqua in uscita
Il
Dio in uscita che mi accompagna in
questa Pesach duemilasedici ha il sapore del pane fatto in casa e i colori di
un orizzonte infinito. Amo gli sconfinamenti, di cielo e di terra, le rotte
geografiche dell’anima che mi portano altrove,
in altri lidi di suono e silenzio, oppure, chissà, in un altrove in mezzo a una città che vorrei abitare con sguardo altro.
I
tempi prossimi di risurrezione hanno bisogno, a volte, di conflitti, di parole
vere e forse dure, di abbandoni e ritorni, di de-istituzionalizzare il sacro e
il profano. Scappo, quindi, a gambe levate da liturgie senza vita e senza
spirito, da omelie imbarazzanti, da parroci-re di un impero fattosi solo Tempio
che, tra qualche anno, cadrà in pezzi. Scappo da oratori e sagrestie, da una
Chiesa baby sitter e da catechismi obbligatori e parrocchie che ancora oggi si
sviluppano intorno al modello tridentino, da laici con il capo all’ingiù diventati
presto cortigiani del re. Scappo, infine, per antica usanza familiare, dalla
pratica ecclesiale del do ut des.
Scappo,
eppure ci sono. Mi allontano, ma non smetto. La buona battaglia è in cima a un
vocabolario, suona le note di una chitarra, percorre le vie di ascolto di chi
riceve i tanti “no” nella vita, nel lavoro, nella chiesa. La nostalgia dell’altro da me mi viene incontro, buona
pratica di nuova democrazia.
Ho
voglia di parole minuscole, di una chiesa minuscola e di domande maiuscole,
quelle che chiedono risposte forse fragili, ma vere. E ho voglia di rispondere
con sorriso e benedizione.
Mi
affascina la strada che porta a uscire,
iniziando da noi stessi. Uscire, uscire,
uscire, come un rap infinito nelle orecchie. Per abbracciare la scrittura
sacra, così diversa dalle nostre traduzioni post-conciliari troppo addomesticate,
plaudenti, assolventi.
La
Parola sacra non prende lezioni da adulazioni e fraintendimenti. Essa, agisce
nel profondo del “noi”, e non ha bisogno di controprova pratica. Ecco perché
non mi piace più la parola “comunità”, l’esempio traditore di minuscolo e
maiuscolo, il vocabolo principe che delimita, confina, identifica: meglio fraternità, manna dal cielo per tutti,
laici e cristiani, ricchi e poveri. Come fratello Francesco, vescovo Francesco,
scompigliatore sul trono di Pietro del lessico sacro.
Uscire invece con leggerezza penso sia la strada vincente per il cristiano in cammino
nell’era di Francesco. La leggerezza che non tiene per sé, ma lascia andare. La
leggerezza che non intrattiene, ma educa al futuro. Perché d’ora in poi, anche
se il Tempio tenterà di chiudersi al proprio interno con i suoi fedeli per
paura di “quello che c’è fuori”, ogni volontà di rinnovare la promessa mosaica
è possibile. Persino dove i sacerdoti del territorio, spesso custodi gelosi della
liturgia, sono insensibili alle domande che provengono dal profondo del “noi”.
Perché il cristiano adora Dio, non il suo sacerdote. E si è chiesa non per affinità o simpatia reciproca, ma per professione
di fede cristologica e battesimo.
E
allora che venga Pesach, passaggio.
I
tempi prossimi di risurrezione del silenzio e dell’abbandono all’altro.
Commenti
Posta un commento