Diario del Sinodo /2. Beata Sinodalità


Diciamolo subito: la parola sinodalità, che viene dibattuta nell’attuale Sinodo dei Vescovi che sta svolgendosi in Vaticano, è una parola o un oggetto misterioso a gran parte dei fedeli, figuriamoci a chi è in ricerca. Sebbene il termine abbia origini nobili e faccia sognare voli pindarici teologici e pastorali – deriva dal greco
 sinodo, composto dalla particella syn, insieme e odos, via, cammino, e per papa Francesco significa camminare insieme, nella stessa direzione –, sinodalità racchiude tanto di quel linguaggio “ecclesialese” che non mi piace e che pesa come una zavorra sui piedi di una Chiesa che dovrebbe invece essere più leggera nel parlare di Dio e più vicina alla vita degli uomini e delle donne.

 

Già, sinodalità. Oppure, ancora meglio: condivisione della pastorale tra laici e gerarchia, collaborazione creativa e non ossequiante.

Già, beata sinodalità. Invece quella che abbiamo sperimentato nel corso degli ultimi cinquanta anni, dopo che il Concilio Vaticano II l’aveva liberata dal gioco dei dogmi (?) e delle consuetudini curiali, è stata una sinodalità molto dimessa, silenziosa, legata dentro un contesto di regole create ad arte per imprigionarla.

Beata sinodalità. Quella che quanto è difficile sperimentarla nelle parrocchie di ogni territorio, dove il parroco è re, imperatore, capo assoluto, amministratore delegato e operaio specializzato. E dove i consigli pastorali funzionano solo come passacarte dei voleri del parroco.

Beata sinodalità. Quella del supplizio della carne e dei sentimenti, della bellezza e della creatività che manco a parlarne, quella di una liturgia stantia che affascina solo la popolazione anziana, quella dell’obbedienza forzata e supina da parte di laici orfani di bella vita e quindi accondiscendenti al potere ecclesiale, quella del “si fa sempre così”.  Quella, infine, lontana dalla passione teologica e antropologica delle Beatitudini.

 

Una sinodalità che, a sentire molti pastori ancora oggi, va almeno imbrigliata, se non si riesce più a soffocarla.

 

E allora una domanda ce la dobbiamo pur porre, a proposito della sinodalità. Di fronte alla crisi del sacro e della pratica religiosa in tutto il mondo, specialmente nell’Occidente ricco e stanco, di fronte alla diminuzione del numero delle vocazioni, può bastare parlare di sinodalità? La risposta è semplice: no. Non basta. 

 

Non basterà a supplire un deficit di sacro che qualcuno fa finta di non accorgersene ma c’è, esiste. Lo si vede nella partecipazione alla messa domenicale in parrocchia, negli uffici curiali dove la burocrazia uccide la fede, nelle domande fondamentali della vita dove l’abbraccio con il desiderio di Dio fatica a manifestarsi, soprattutto nelle giovani generazioni.

 

No, non basterà parlare solo di sinodalità.

 

Ma è un passaggio, questo sì. Un passaggio che potrebbe provocare un assaggio nuovo (p-assaggio) di senso ecclesiale. Papa Francesco ci conta molto e invoca per questo l’aiuto dello Spirito Santo. 


Ci vorrà però del tempo. Molto tempo. Perché, una sinodalità ritrovata e gustata di nuovo – vedremo come andrà a finire questo Sinodo – non cambierà le carte in tavola rispetto alla crisi del sacro che stanno avendo le religioni e le fedi geopolitcamente dislocate nella parte più ricca del pianeta, ma potrà aprire uno spiraglio di vento nuovo all’interno della casa comune, che è la Chiesa.

 

Un’aria fresca per accompagnarci, di nuovo, al godimento di un Dio che sorride.

Beata sinodalità, allora. Questa sì, davvero beata.

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