Il Caso Bose, gli esiliati e gli esclaustrati

Inutile che ci giriamo intorno: il caso Bose – la querelle che mette in contrapposizione ormai da quasi un anno, almeno ufficialmente, il fondatore di Bose, Enzo Bianchi, e il priore attuale, Luciano Manicardi – è uno di quegli avvenimenti che ci lasciano davvero l’amaro in bocca.

L’amarezza, del tutto personale, come è sicuramente personale in tanti che hanno avuto e continuano ad avere un vincolo di amicizia sia con il fondatore che con il resto della comunità, in questo caso travalica i confini sentimentali per diventare amarezza ecclesiale.

Tanti scrivono e titolano: “chiuso il caso Bose”. Non so. Non ne sono sicuro. Perché nel momento in cui si decide di affidarsi al diritto canonico – che ha ovviamente i suoi riti, le sue leggi, che possono pure definirsi in alcun casi leggi ataviche, di un’epoca passata, ma esistono, ci sono, vengono evocate spesso nelle diatribe tra comunità –, significa di fatto scegliere il principio di autorità come arbitro, non proprio super partes, per la controversia. Un’autorità che non fa sconti alla misericordia, all’amore, al confronto, alle relazioni umane pure incasinate e frammentate che però devono, per forza, avere il coraggio di uscire dal buio delle ferite per incontrarsi, parlarsi, dialogare.


Questo è il punto. Se sulla vicenda Bose è lecito avere dei dubbi – al netto dei “so” e non “so” dei vari portatori d’acqua al mulino dei contendenti della vicenda – questi nascono prima dall’infedeltà al dialogo che i vari attori della vicenda hanno mostrato.

Perché se è vero, come è vero, che nella vicenda del caso Bose non ci sono problemi di eresia o di deviazioni dal Vangelo, e se il problema evidenziato è “l’esercizio dell’autorità del fondatore”, ebbene questo conflitto va risolto nei ristretti vicoli di un confronto, seppur aspro, e di un contraddittorio che può essere sicuramente facilitato dall’esterno, ma credo con più difficoltà dal principio di autorità. 

Recita un antico detto che i panni sporchi si lavano in famiglia. Ma se anche lo scandalo fosse uscito, come in questo caso, fuori dalle accoglienti mura di un monastero, nulla vieta a persone, monaci e monache, fratelli e sorelle, che si sono dedicate interamente al Vangelo per anni, di continuare la “buona battaglia” (anche tra di loro) senza attingere al principio di autorità.


La storia del monachesimo ci insegna, ancora ai giorni oggi, che gli abati e i priori, pur quelli dotati di carisma eccezionale, convivono con le mediazioni del proprio Capitolo. Non si è priori a vita, ma non si è neppure priori eletti, magari solo con la maggioranza del Capitolo, investiti di un potere che permette di assumere atteggiamenti e decisioni eccezionali. La mediazione è il principio cardine persino di un’istituzione monastica, persino della Chiesa.


Non so davvero cosa succederà dopo il 16 febbraio, termine ultimo del decreto che impone al fondatore ed esiliato di Bose di lasciare il locale dove oggi vive nei pressi di Magnano per andare a finire i suoi giorni in un luogo che pure lui ama molto, la pieve di Cellole, e comunque lontano dalla terra in cui è nato e dove ha intuito il sogno di Bose, con alcuni esclaustrati che dovrebbero seguirlo.

Non so quanto tra esiliati ed esclaustrati, lettere affazzonate e un certo silenzio, questo sì davvero imbarazzante, di un mondo cattolico che sta seguendo la vicenda origliando dalle pagine web senza intervenire pubblicamente, la vicenda possa durare ancora per molto.


Ma qualcosa mi dice che non basta.

Non basta il diritto canonico. Non basta dirsi scandalizzati. Non basta invocare la parola, abusatissima, di perdono.


Basta, in realtà, lasciarsi abbagliare, ancora una volta, da una parola che è stato il leit motiv per oltre 50 anni di Bose: dialogo. Quello che si è incagliato dentro le macchinose giunture di una burocrazia ecclesiale aperta agli spifferi di corridoio.


In fondo i contendenti chiedono poche cose. Il già priore e fondatore di morire in casa sua, con la dignità addosso di monaco, con la tunica di monaco di Bose; il priore attuale quello di esercitare, come è giusto che sia, il potere di guida della comunità. Che non è, comunque, un potere assoluto.


Su queste poche cose si gioca il futuro di Bose. Dal passaggio del principio di autorità bandito come salva-crisi all’autorevolezza di relazioni forse non più fraterne, ma certo più umane.


Agli uni il diritto e la dignità di sentirsi ancora monaci, agli altri il diritto e la dignità di continuare il sogno.

Commenti

  1. Risposte
    1. Mi chiamo Gianni Di Santo. Sono giornalista e mi occupo di informazione religiosa. Questo è il mio blog. Grazie

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  2. Anche i vecchi avvocati dicevano che é sempre preferibile il peggiore accordo tra le parti, per quanto faticosamente raggiunto,alla più bella delle sentenze, che é se una decisione esterna alle parti e calata dall'alto.Condivido in tutto e spero in un accordo, anche sul piano umano.Lucia Coppola

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