San Romero d'America, 35 anni dopo

La notizia che mons. Oscar Arnulfo Romero, ucciso il 24 marzo del 1980 mentre celebrava messa dagli squadroni della morte del governo del suo paese, sia oggi riconosciuto “martire della fede” dalla Chiesa cattolica, riempie di ottimismo i cuori di chi ha sempre creduto che l’”opzione preferenziale per i poveri” non sia solo un documento scritto a Medellin o Puebla, ma l’architrave del messaggio evangelico. Ora aspettiamo la data della beatificazione di mons. Romero, che il popolo latino-americano e non solo salvadoregno già considera “santo”, come ultimo suggello di una storia in parte e per lungo tempo dimenticata negli archivi vaticani ma non nella memoria storica della gente.
Questa “buona” notizia, però, non cela la domanda che sta dietro l’intera vicenda biografica dell’arcivescovo di San Salvador: perché questo ritardo di 35 anni nel riconoscere il martirio per fede?
La vicenda umana e pastorale di Romero si intreccia con gli anni bui della repressione delle libertà fondamentali nell’area latinoamericana. L’anticomunismo viscerale di Giovanni Paolo II era il vero faro della sua azione diplomatica fuori dalle mura leonine. L’Europa e non solo, dunque, come campo di battaglia per une fede pura in difesa da un comunismo che già, in parte, cominciava a sgretolarsi.  Una realpolitik a traino conservatrice (non solo in politica, ma anche in teologia), fortemente orientata a destra, dove le esigenze pastorali e spirituali dei popoli venivano subordinate alle vicende politiche dei governi.

Si sa, tra Wojtyla e Romero non c’era un buon feeling. La visione europocentrica del papa polacco forse faceva fatica a capire una storia di lotta per i diritti umani e la giustizia come quella salvadoregna. E nell’unico incontro del maggio 1979 che ebbero in Vaticano, durante un’udienza chiesta e quasi supplicata da Romero, la “freddezza” del papa nei confronti della storia che raccontava il pastore, fu evidente. Ci fu un invito perentorio da parte del papa ad andare d’accordo con il governo in carica; un governo militare che usava qualsiasi mezzo violento per ottenere i suoi scopi. E si sa che Romero tornò in patria in lacrime.
San Salvador come il Cile del generale Pinochet, altro dittatore e squadrista incensato dagli ambienti curiali romani di quegli anni, che evidentemente avevano un certo ascendente nei confronti del papa polacco.
La Chiesa, lì, scelse tante volte e in diversi contesti di stare più dalle parti dei governi che non dalla parte dei poveri e degli indigenti. E la realpolitik della desistenza con i regimi di allora, può sembrare, ancora oggi, una delle vie “intelligenti” per superare tempi difficili.
Ma bisogna pur dire che l’omicidio di mons. Romero, e di tutti gli altri ammazzati in quel paese latinoamericano, come il padre gesuita Rutilio Grande, suo grande amico, raccontano una storia diversa, quella di una Chiesa affianco ai campesinos e alla povera gente.
E, allora, la domanda ritorna: può “un martire per fede” essere sacrificato sull’altare di una realpolitik studiata a tavolino?

Il giorno prima del barbaro assassinio, domenica 23 marzo, nell'ultima omelia diffusa per radio, Romero disse: «Durante la settimana, mentre vado raccogliendo le grida del popolo, il dolore per così grandi delitti, la ignominia di tanta violenza, chiedo al Signore che mi dia la parola opportuna per consolare, denunziare, chiamare a pentimento (…). Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. (…) In nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!». 


San Romero d’America oggi è meno solo. Ci voleva un papa venuto dall’altra parte del mondo a ricordarcelo. Con tutto il peso politico, pastorale e addirittura teologico, che questa decisione porta con sé.

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