Benedetto XVI e la fedeltà al trono di Pietro

Articolo pubblicato su Vino Nuovo


Benché monsGeorg Gaenswein continui a discettare su Joseph Ratzinger e sulla sua salute, il pontificato di Benedetto XVI, e la sua visione pastorale e teologica, andranno valutati nella loro complessità e nei giusti tempi. Benedetto XVI è un uomo e intellettuale fortemente radicato nel novecento europeo, ma che ha vissuto appieno la crisi della globalizzazione-desacralizzazione degli anni duemila. La complessità, e per certi versi, anche la grandezza, appartiene a quest’uomo che per una manciata d’anni ha provato a governare la Chiesa dopo essere stato per molto tempo suo attento cerimoniere e guardiano.

Benedetto XVI è stato prima un sacerdotee poi vescovo, cardinale e papa fedele. La fedeltà  (cioè l’aver fede) l’ha vissuta come caratteristica saliente del suo essere prete. Fedele a Giovanni Paolo II, quando da inflessibile scudiero dell’ex Sant’Uffizio ha blindato la Chiesa universale sul pontificato wojtyliano. Un ufficio, il suo, che ai pareri teologici ha preferito sempre gli altolà dottrinali. Con il papa, affianco al papa, fedele al papa. Una fedeltà in linea con la tradizione della Chiesa, che preserva fughe in avanti e azioni riformatrici se non volute espressamente dal successore di Pietro in persona. In questo senso il trono di Pietro è l’architrave, prima ancora della Parola di Dio, che regge il sistema.


Per questa sua fedeltà, nonostante l’età e gli acciacchi fisici, fu scelto come pontefice. Una monarchia illuminata, però, la sua. Una teologia razionale profonda e poco empatica, tipicamente europea (i discorsi e gli scritti di Benedetto XVI sono tra le cose più belle e più alte nella storia dei magisteri pontifici) che, una volta sedutosi sul trono di Pietro, egli ha voluto (dovuto?) mediare con il governo della Chiesa. Con tutti gli scandali che hanno infestato il suo pontificato (vatileaks, pedofili), Benedetto XVI ha lasciato che la burocrazia curiale intralciasse in modo significativo il suo governo pastorale. Dalla scelta dei cardinali ai prefetti di Congregazione, dal Motu proprio sulla messa in latino che ha rinvigorito la parte più tradizionalista della Chiesa con ricadute pastorali discutibili e affrettate, alle scelte del governo della curiaper finire alla segreteria di stato, ebbene in ogni sua scelta pastorale e di governo la fedeltà ha ceduto il passo alla burocrazia e a una collegialità nelle scelte che, ben lontane dall’essere vera condivisione, sono diventate spesso l’applicazione di una sorta di manuale Cencelli in salsa pontificia.

Fino all’atto estremo più fedele, fedele alla Parola di Dio: le dimissioni dal soglio pontificio, quando per evidenti motivi non seppe più gestire il governo della barca di Pietro. Una fedeltà prima al Vangelo e poi alla Chiesa che ha più volte detto e ripetuto anche rispetto al nuovo vescovo di Roma, Francesco.
Una fedeltà chiusa tra le mura di un convento all’interno della città leonina, ma libera di parlare, di essere interpretata e di essere veicolata, a proprio piacimento, anche da chi la fedeltà non l’ha mantenuta come scelta di fede. Non si può dire che il papa emerito, Benedetto XVI, oggi sia in silenzio, così come si era ripromesso al momento di lasciare le consegne.

Qualcuno sostiene che Benedetto XVI prima o poi sarà proclamato Dottore della Chiesa. Probabile, e per certi versi auspicabile. Forse la sua grandezza (e non c’è nulla di più grande delle dimissioni da papa) e la sua complessità di testimone del nostro tempo, vanno proprio ricercate in questa frattura che ha più volte tentato di arginare tra fedeltà a Pietro e teologia della buona notizia.


Un lascito profetico che la Chiesa del nuovo millennio non potrà non considerare.

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