Se il sacro scappa in America Latina

Articolo pubblicato su Vino Nuovo

La lunga e paziente opera di destrutturazione del potere temporale della Chiesa voluta da Francesco ha un piede, ormai senza più nascondersi, in America Latina. L’immagine del sacro, così racchiusa dentro la storia d’Europa, tende a incarnarsi verso le bidonvilles del terzo e quarto mondo, verso quella “Chiesa in uscita da se stessa” che apre porte e costruisce ponti lontana da piazza San Pietro. La nuova geopolitica della Chiesa abbraccia povertà ed emarginazione, prima ancora di addobbi sacrali e cerimonie di altri tempi.
Una rivoluzione, non c’è che dire. Culturale, prima ancora che teologica. Una transizione evidente dal modello petrino europeo, sedimentatosi nei secoli, verso un modello episcopale dove il pastore è incarnato nel suo territorio. Dove la fede è la terra. A volte, più del cielo. Meno cardinali, più vescovi. Meno Petrus, più Vangelo. Ecco perché qualcuno l’ha presa male, e l’opposizione – curiale, ma anche di lobbies e circoli vari – al pontefice regnante appare oggi molto più agguerrita di prima. Il solo pensiero che il futuro della Chiesa possa essere intriso di chitarre sudamericane, liturgie e Alleluja popolari, teologie davvero di liberazione dove l’annuncio di un vangelo sociale e misericordioso fanno tremare più di qualche palazzo curiale, è sufficiente a destare preoccupazione. D’altronde sempre qualcuno si domanda se il crescente proliferare delle chiese pentecostali proprio in America Latina non sia un segnale che va preso in seria considerazione.

Ma basta ciò per il futuro della Chiesa?
Ormai la teologia e le Chiese europee sono in grande crisi, di personalità, di fedeltà al popolo di Dio, di sorriso e misericordia. Eppure, dietro la passione travolgente, teologica pastorale ed etica, musicale e spirituale insieme, persino civile, che proviene dall'altro lato del mondo, perfettamente incarnata da papa Francesco, penso che il cambio di passo per la Chiesa universale avverrà se alla passione e alla misericordia il popolo di Dio saprà aggiungere quel “di più” (i gesuiti direbbero quel “magis”) che proviene dalla grande tradizione della teologia europea.
La fede che ama la terra, per dirla con Rahaner, la fede razionale che annuncia la salvezza dentro i templi del sacro e nei recinti della singola anima, del singolo uomo, attraverso una formazione di un’etica individuale ancor prima che pubblica, la liturgia della bellezza e le liturgie popolari, il silenzio dello Spirito e i silenzi dell’eremo, il sacro come sguardo che invoca il cielo e non come mattone che abbellisce la città di Dio, potranno dare una (la) mano alla nascente Chiesa del sud del mondo (e viceversa).

Ma va trovato in Europa chi lo possa fare, o almeno chi sappia essere pronto a questa mediazione culturale e teologica. Abbiamo pastori o vescovi che sono in grado di farlo? Al momento sono pochi. Almeno adesso, però. Nelle recenti nomine episcopali di Francesco, soprattutto in Italia ma anche in Europa, c’è in realtà come tratto distintivo del curriculum vitae una ricerca della misericordia e dell’annuncio, del sacro vissuto come esigenza dell’anima e del popolare come abbraccio alla Chiesa “ospedale da campo”.
La biografia e la testimonianza evangelica come il “di più” della fede. Così la profezia si sposta verso l’uomo, verso il Gesù umano. Il mistero della fede è imbevuto di carne e di spirito.

In realtà vescovo Francesco, attraverso le scelte dei pastori, ci sta indicando una via futura da percorrere già da oggi. Ci vorrà tempo. Le nuove teologie portano con sé il guizzo dell’intelligenza e della creazione ma scontano il depositarsi lento nel tessuto sociale e umano.


La Chiesa del dopo Francesco la immagino così.

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