A tavola con Dio, in memoria di Pesakh
I
candelabri dalle sette fiamme e gli altri lumi sono appena accesi. Per gli
ebrei sono il segno del giorno di festa e insieme simbolo della luce che viene
da Dio e che deve illuminare la loro vita. È la festa di Pasqua, Pesakh in ebraico, la memoria di quando
il Signore Dio d’Israele liberò dalla schiavitù il suo popolo, aprendo per loro
un passaggio attraverso le acque del mar Rosso.
I
preparativi per la cena vanno avanti dal pomeriggio. Le donne sono tutte in
cucina. Intingono, assaggiano, odorano, cucinano, e soprattutto parlottano come
non mai. Gli uomini sistemano la sala per la cena, preparano il tavolo, apparecchiano,
stappano bottiglie di buon vino rosso. Il musico accorda una inaccordabile
chitarra “da battaglia” trovata lì, nella Casa San Girolamo a Spello, perché è
proprio da qui che inizia il racconto del seder
di Pesakh. La musica è sempre
l’ultima ruota di scorta nelle nostre tavolate postconciliari, chissà perché.
Non ha dignità di alto rango, specie negli strumenti musicali, spesso scordati,
obsoleti, passati di mano in mano. Eppure la musica e il canto sono le vie più
dirette per avvicinarsi al sacro.
L’agnello,
simbolo sacrificale per eccellenza del rituale ebraico, sta cucinandosi. Il suo
odore irrompe nella sala.
La
cena pasquale, oggi, segue un suo antico rituale. La persona più importante presiede
la celebrazione. Alla sua destra c’è il più giovane. Davanti a lui, una grande
coppa di vino. Anche i commensali hanno la loro coppa di vino, più piccola, e
un piatto. Sulla tavola delle piccole ciotole contenenti succo di limone,
prezzemolo e sedano e una salsa detta kharoset,
un impasto dolce e intenso fatto con fichi, datteri, mandorle, essenza di
arancio e vino liquoroso, per ricordare il fango con cui gli ebrei erano
costretti a impastare i mattoni durante la schiavitù.
Il
pasto intanto ha inizio. Si sta bene, comodi, come in una cena tra amici:
nessuno è schiavo questa sera.
Chissà
che voce aveva, Gesù, mi racconta Moni Ovadia. «Era intonato o stonato come il
patriarca Abramo? Faccio un ipotesi: Gesù forse non aveva una bella voce, ma di
certo un’espressività perturbante e gioiosa come quella di Louis Armstrong. Nel
momento in cui, con ogni probabilità, intonò Betzet Israel (all’uscita dall’Egitto), il salmo della melodia più
intensa, gli apostoli forse ammutolirono e ascoltarono a bocca aperta».
A
quel punto Gesù avrà compiuto la cerimonia del jahaz, preso dal piatto rituale tre azzime sovrapposte ed estratto
l’azzima dal mezzo, poi l’avrà spezzata chiedendo che una delle due metà fosse
nascosta. Fatto questo, avrà riempito il secondo bicchiere di vino e dato
principio alla lettura della haggadah
(il racconto della schiavitù d’Egitto) del Pesakh.
Si
bene del buon vino, intanto, si mangiano le erbe amare. Questa sera hanno un sapore
diverso. Perfino il prezzemolo con il limone dà sollievo al palato.
Poi,
il più giovane dei commensali, chiede a Gesù: Maestro, perché la notte di Pasqua
gli ebrei mangiano l’agnello? Perché questa notte mangeremo le erbe amare?
Perché mangeremo il pane azzimo? Gesù, in questo caso il sacerdote che presiede
la celebrazione, risponde a ogni domanda.
Finito
il dialogo con il più giovane, ci si prepara alla cena vera e propria,
degustando l’agnello e le altre vivande. I commensali ridono con gusto. Il vino
scende a fiumi. L’agnello è strepitoso. E i racconti di vita di ciascuno dei
commensali vengono accarezzati dal dono dell’ascolto.
L’artista
Moni Ovadia, straordinario interprete della tradizione culturale ebraica (al
quale, da cristiano, sono debitore per avermi fatto recuperare la memoria e il significato
più intimo della cena ebraica pasquale, che fece Gesù in quanto ebreo), mi confidò:
«Ciascun essere umano ebreo, cristiano, musulmano ma anche agnostico, ateo o
diversamente credente, dovrebbe una volta nella vita partecipare a un seder di Pesakh, per riallacciarsi alle radici più profonde della liberazione
da ogni forma di schiavitù. Ogni anno a casa mia lo prepariamo e lo celebriamo
nella sua completezza con tanti amici, ebrei, cristiani, agnostici, atei. Invito
sempre un vescovo cattolico. Leggiamo l’haggadah
prima in ebraico e poi in italiano. Teniamo la porta d’ingresso socchiusa nel
caso dovesse onorarci con una sua visita il profeta Elia oppure un viandante, che
è sempre e comunque annuncio del profeta».
Già,
Elia. Il profeta che attendono i nostri fratelli ebrei. Elia, che noi cristiani
abbiamo imparato a conoscere con il nome di Gesù.
E che oggi, per atto d’amore e misericordia, accogliamo a braccia aperte nel
volto dell’Altro.
Una
sedia vuota, e un posto a tavola apparecchiato per chiunque passasse di lì.
E
che sia Pesakh.
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