La Chiesa italiana dopo Firenze (1). La sinodalità dimezzata
Primo di tre articoli apparso oggi, 17 novembre, sul blog "Vino Nuovo"
La Chiesa italiana torna a casa dopo il suo V Convegno
ecclesiale nazionale con due certezze evidenti: l’essere stata “travolta”,
teologicamente, pastoralmente e spiritualmente, dal discorso di papa Francesco,
e dall’aver visto, ancora una volta, quanto il suo corpo vivo, cioè il laicato
impegnato, più che le strutture e gli uffici pastorali, sia ancora la risorsa
migliore, per qualità umana e dedizione al servizio, sul quale puntare nel
prossimo futuro.
Al di là di un clima, rispetto ai precedenti Convegni
nazionali, certamente operoso e dove tutti i delegati hanno potuto esprimere la
propria opinione, mi sembra di poter dire che l’appuntamento decennale della
Chiesa italiana abbia risentito e risenta, rispetto agli anni a venire, di
almeno tre (s)nodi critici.
Cominciamo dal primo. A sentire i relatori delle cinque
vie e anche i delegati, l’apprezzamento generale è andato al metodo, più
che al contenuto. Un metodo sinodale, dove i 2200 delegati hanno potuto
realmente partecipare “dal basso” attraverso una divisione, peraltro
organizzata da un software, in vie, gruppi e tavoli di lavoro. Una piramide
rovesciata dove ai tavoli di lavoro, costituiti in non più di dieci persone, i
laici hanno dialogato insieme a vescovi e cardinali – alcuni pastori hanno
avuto il coraggio di fare questo passo, mentre altri sono andati via il
mercoledì, subito dopo il discorso del papa, per poi ritornare il venerdì alle
conclusioni del card. Bagnasco, e quindi evitando i tavoli –, per poi arrivare
alle sintesi dei gruppi e infine alle relazioni finali sulle cinque vie.
Insomma, una sinodalità ritrovata, almeno per la Chiesa
italiana. Ma, siamo sicuri che questa sinodalità, sicuramente voluta e trovata
a livello centrale e nel risultato finale, sia stata in realtà una
sinodalità-corresponsabilità vissuta anche a livello periferico e di Chiese
locali?
A me pare di no. Quello che abbiamo visto a Firenze è una sinodalità
dimezzata. Dimezzata per il semplice fatto che il percorso di selezione dei
delegati, ancora saldamente in mano ai vescovi diocesani, è stato vissuto ad
personam dai vescovi stessi. In realtà la giunta del Comitato preparatorio
aveva stilato alcune norme di comportamento per la scelta dei delegati: su
tutte il fatto che non venissero a Firenze “i soliti noti”, cioè coloro che già
avevano partecipato ad altri eventi nazionali, oppure che ci fosse una reale
rappresentanza generazionale. Laddove queste mancanze sono state ravvisate, la
giunta ha provato a raddrizzarle. Il tavolo dei giovani è stato voluto d’ufficio,
e tanti delegati, espressione della Chiesa locale e nazionale, sono stati
aggiunti all’ultimo momento. È il caso, ad esempio, della teologa Serena
Noceti, fiorentina doc e rappresentante di quella teologia al femminile che
tanto sta facendo per rinnovare, in maniera creativa, le motivazioni di una
pastorale ferma da un po’ di anni, che non è stata chiamata dal suo vescovo ma
fortunatamente invitata direttamente dalla segreteria della Cei.
Ma, nonostante ciò, i vescovi, a sentire le lamentele
provenienti da parecchie diocesi, hanno scelto chi gli pareva, prediligendo
spesso i “fedelissimi”, e tutto quell’apparato di uffici diocesani che di
fatto non fanno la pastorale, bensì la coordinano. Al lavoro delle
associazioni, dei movimenti e dei gruppi e alle esperienze più significative
del territorio si è dato più importanza, nella maggior parte dei casi, all’ufficio
curiale, ai coordinatori dei dicasteri diocesani, a presbiteri e laici che
spesso prestano il loro servizio, per ragioni d’ufficio, non in maniera
volontaria.
Alla sinodalità fiorentina si è arrivati con una
sinodalità-corresponsabilità della Chiesa locale dimezzata. È bene che la
Chiesa italiana si interroghi sul perché. Un “perché” che si nasconde in un
concetto della corresponsabilità tra gerarchia e laici che, al di là degli
enunciati, non ha mai fatto breccia nel nostro tessuto ecclesiale. Uno stile di
“ecclesia” che ha dimenticato presto le indicazioni del Concilio Vaticano II.
Dove i consigli pastorali, salvando eroiche eccezioni, sono ancora degli
organismi, benché solo consultivi, in mano a parroci che li utilizzano solo
come espedienti tecnici “obbligatori” per esercitare ancora e meglio il loro
potere ecclesiale più che il loro servizio spirituale. E dove i laici diventano
spesso dei “soldatini” dediti a una manovalanza pastorale che invece aumenta le
divisioni della comunità e la pochezza del servizio reso.
Al rischio della crescita della creatività spirituale che
ogni comunità territoriale ha in sé e del dialogo franco tra gerarchia e laici
molti pastori optano, volutamente, per la calma piatta di uno “status”
ecclesiale che esige cieca obbedienza da parte dei laici e che forse solo oggi
riusciamo a capirne i disastri e le mancanze.
La Chiesa italiana non può che ricominciare da qui. Da
questa sinodalità realmente vissuta e partecipata. Senza questa non si va da
nessuna parte.
E' lo specchio fedele delle nostre realtà parrocchiali. Dice bene: i laici al di là degli enunciati, non ha mai fatto breccia nel nostro tessuto ecclesiale. Ma, forse, qualcosa si muove.
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